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Cosa intendiamo quando parliamo di economia circolare? Secondo la definizione che ne dà la Ellen McArthur Foundation “[economia circolare] è un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera”

Il  2 dicembre 2015 la Commissione Europea ha adottato il pacchetto sull’economia circolare, che  oltre alla  comunicazione COM (2015) 614/2 contenente il piano d’azione è costituita da  quattro proposte di modifica riguardanti di sei direttive:

  • Direttiva 2008/98 EC (direttiva quadro rifiuti),
  • Direttiva 94/62 EC (imballaggi e rifiuti di imballaggio),
  • Direttiva 1999/31 EC (discariche di rifiuti),
  • e infine il  gruppo di Direttive 2003/53 EC sui veicoli fuori uso, 2006/66 EC, relativa a pile e accumulatori e ai rifiuti di pile e accumulatori, 2012/19 EC sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Il piano d’azione stabilisce misure per “chiudere il cerchio” del ciclo di vita dei prodotti, affrontandone le diverse fasi, dalla produzione e il consumo fino alla gestione dei rifiuti e al mercato delle materie prime secondarie.

Il piano d’azione include anche un certo numero di azioni mirate alle barriere del mercato in specifici settori o flussi di materiali, come la plastica, gli sprechi alimentari, le materie prime essenziali, la costruzione e la demolizione, la biomassa e i bioprodotti nonché misure orizzontali in settori come l’innovazione e gli investimenti.

Più nello specifico il piano d’azione riguarda:

  • Produzione (à progettazione, cambio di paradigma rispetto all’economia lineare…)
  • Consumo (à es. sharing economy)
  • Gestione dei rifiuti
  • Da rifiuti a risorse: stimolare il mercato delle materie prime secondarie (à es. upcycling) e il riutilizzo dell’acqua
  • Settori prioritari (plastica, rifiuti alimentari, materie prime essenziali (minerali contenuti nei RAEE), rifiuti di costruzione e demolizione, biomassa e prodotti biologici
  • Innovazione e investimenti
  • Monitoraggio dei progressi compiuti verso un’economia circolare

L’art. 9 della proposta Direttiva che modifica la direttiva 2008/98 pone l’accento sulla prevenzione dei rifiuti ed è in questo contesto che si inserisce l’upcyling. Per upcycling si intende l’utilizzo di materiali di scarto, destinati ad essere gettati, per creare nuovi oggetti dal valore maggiore del materiale originale. La prima attestazione del termine upcycling si trova  in  un articolo dell’ottobre 1994 sulla rivista di architettura e antichità Salvo, in un’intervista di Thornton Kay all’ingegnere meccanico Reiner Pilz. I vantaggi sono molti, legati principalmente al risparmio di energia e alla tutela ambientale. Mentre il  riciclo spesso richiede grosse quantità di energia, l’upcycling permette di riutilizzare alcuni materiali per realizzarne di nuovi ed equivalenti, ma questo processo necessità di una quantità di energia che, pur essendo minore di quella necessaria per realizzare il prodotto ex-novo, risulta comunque notevole. Nel caso dell’upcycling, l’energia necessaria a creare un nuovo prodotto è nulla o molto bassa. Inoltre va evidenziato che non tutti i materiali possono essere riciclati con un’alta efficienza. Nella maggior parte dei casi (il vetro è forse la più grande eccezione) il prodotto finale del ciclo di recycling risulta di qualità minore e non equivalente. Ad esempio, una volta riciclata la carta vergine diventa cartone, ma nel ciclo successivo quest’ultimo è destinato alla discarica o all’inceneritore. Allo stesso modo la plastica riciclata viene utilizzata per realizzare maglioni sintetici; nel ciclo successivo non è più possibile utilizzarla nuovamente. Una lattina è normalmente costituita da un composto di alluminio, una lega di manganese con una parte di magnesio, vernice colorata e un rivestimento che impedisce al tutto di ossidarsi. Trasformare l’alluminio in una lattina finita è un processo relativamente semplice, tuttavia il processo inverso richiede un grosso sforzo. Normalmente, per evitare costi esorbitanti, dopo l’utilizzo tutti i componenti di una lattina vengono fusi insieme, producendo un materiale più debole e di qualità minore del prodotto originale. Questo tipo di processo con perdita di valore è definito downcycling (termine che compare anch’esso, per la prima volta, nell’articolo di Thornton Kay). L’upcycling contribuisce a ridurre il costo della produzione di nuovi oggetti. Produrre da sé o acquistare oggetti realizzati con materiali di scarto permette di ridurre i costi (ambientali e monetari) delle materie prime e, spesso, il tempo di produzione dell’oggetto. Ovviamente il confronto non va fatto con oggetti prodotti industrialmente, ma con un oggetto analogo realizzato con lo stesso metodo, ma materiali vergini.

E’ interessante notare che le pratiche di upcycling si stanno diffondendo non per necessità ma per convenzione e per convenienza, siamo davanti ad passaggio culturale. Attualmente il mercato per i prodotti dell’upcycling è un mercato di nicchia, caratterizzato da amanti dell’arte e della creatività che vedono questi oggetti come esclusivi e alla moda, ma si sta comunque ampliando sempre di più.

L’upcycling offre nuove opportunità imprenditoriali e di creazione di posti di lavoro ed è proprio su questo terreno che si stanno muovendo molte imprese sociali o ne stanno nascendo di nuove.

Accanto alle opportunità non mancano alcune difficoltà operative dovute al reperimento dei materiali. L’attuale normativa in materia di rifiuti distingue tra tre diversi concetti ben definiti: rifiuto (art 1 Direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008  e art. 183 D.Lgs. IT 152 del 3 aprile 2006), sottoprodotto (art. 5 Direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008  e D.Lgs IT 152/2006 art.184 – bis)  e cessazione della qualifica di rifiuto (art 6 Direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008 e D.Lgs IT 152/2006 art.184 – ter).

Designer, artisti, artigiani al fine di realizzare, attraverso l’upcycling oggetti di design / d’artigianato e installazioni / opere d’arte  possono utilizzare prodotti o beni (es. oggetti vecchi o beni e prodotti ceduti da aziende) prima che si manifesti nel proprietario l’intenzione di disfarsene ( il “disfarsi è uno dei concetti chiave della normativa sui rifiuti) È tuttavia importante tenere presente che la pratica del rovistaggio nei cassonetti in Italia non è consentita.

In alternativa si possono utilizzare i sottoprodotti (es. scarti e sfridi di produzione) →  una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo è considerato sottoprodotto, e non rifiuto, se sono soddisfatte le seguenti condizioni:

  • è certo che sarà ulteriormente utilizzata;
  • può essere utilizzata direttamente senza ulteriori trattamenti che non siano quelli della normale pratica industriale;
  • è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione;
  • l’ulteriore utilizzo è legale, ossia sono soddisfatti, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente.

 materiali classificati come rifiuto non possono essere pertanto utilizzati: quando si ha a che fare con rifiuti è necessaria l’autorizzazione, l’iscrizione o la comunicazione (disciplinate dagli artt. da 208 a 216 del D.Lgs. 152/2006, modificato dal D.Lgs. 205/2010) per poter effettuare attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti.

La Commissione Europea ha avviato un progetto relativo allo sviluppo dei criteri “End of Waste”, direttamente collegato con l’art. 6 della Direttiva 2008/98/CE. I criteri “End of waste” specificano a quali condizioni alcune tipologie di rifiuti cessano di essere tali e ottengono lo status di prodotto o quello di materia prima seconda (MPS). Alcuni rifiuti specifici cessano infatti di essere tali quando siano sottoposti ad un’operazione di recupero (incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo) e soddisfino criteri specifici, da elaborare in conformità con alcune condizioni legali:

  • la sostanza o l’oggetto e’ comunemente utilizzato per scopi specifici;
  • esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
  • la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
  • l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

La tutela ambientale, attraverso attività di riduzione dei rifiuti, e la promozione delle energie rinnovabili sono alcuni degli ambiti in cui l’impresa sociale opera, oltre all’integrazione sociale ed economica delle categorie svantaggiate, come le attività di formazione e inserimento lavorativo; i servizi sociali di interesse generale, che vanno dall’assistenza agli anziani e ai disabili ai servizi educativi per l’infanzia, fino all’housing sociale e alla sanità; altri servizi pubblici, come il trasporto e la manutenzione di spazi pubblici;  la promozione della democrazia, dei diritti civili e della “partecipazione digitale”;

Nell’ambito della Social Business Initiative, lanciata nel 2011 (SEC(2011) 1278 final) per promuovere lo sviluppo di un mercato dell’economia sociale più competitivo, la Commissione Europea  aveva definito l’impresa sociale come un business caratterizzato da:

– fini sociali e bene comune come ragione prima dell’attività commerciale, spesso accompagnata da un alto grado di innovazione sociale;

– profitti reinvestiti al fine di raggiungere gli obiettivi sociali preposti;

– organizzazione interna che riflette la natura sociale ed etica del business attraverso processi decisionali democratici e partecipativi ispirati all’idea di giustizia sociale.

Le imprese sociali hanno molte forme e misure e hanno differenti forme legali in tutta Europa. Come enunciato dalla Social Business Initiative (SBI) della Commissione europea, le imprese sociali hanno le seguenti comuni caratteristiche:

• Guadagnare profitto attraverso il commercio

• Avere un obiettivo sociale o societario del bene comune come ragione della loro attività economica, spesso nella forma di grande livello di innovazione sociale

• I profitti sono principalmente reinvestiti con l’intenzione di raggiungere questo obiettivo sociale

• Un metodo di organizzazione o un sistema delle quote che riflette la loro mission, usando governance democratica o principi partecipatori o focalizzandosi sulla giustizia sociale.

Le imprese sociali offrono un modello di business del 21esimo secolo che equilibra bisogni finanziari, sociali, culturali e ambientali. Gli imprenditori sociali sono agenti di cambiamento, come individui e gruppi con la passione di migliorare le vite dei cittadini e delle comunità, traducendo  in pratica quel principio di sussidiarietà che è contenuto nell’art. 118 della Costituzione Italiana.

Le imprese sociali hanno molte forme e misure e hanno differenti forme legali in tutta Europa. Come enunciato dalla Social Business Initiative (SBI) della Commissione europea, le imprese sociali hanno le seguenti comuni caratteristiche:

• Avere un obiettivo sociale o societario del bene comune come ragione della loro attività economica, spesso nella forma di grande livello di innovazione sociale

• Ottenere attraverso il commercio, profitti  che vengono reinvestiti totalmente o in gran parte (si parla in questi casi delle c.d. imprese low profit) per il raggiungimento dell’ obiettivo sociale

• Un metodo di organizzazione o un sistema delle quote che riflette la loro mission, usando governance democratica o principi partecipatori o focalizzandosi sulla giustizia sociale.

Le imprese sociali offrono un modello di business del 21esimo secolo che equilibra bisogni finanziari, sociali, culturali e ambientali. Gli imprenditori sociali sono agenti di cambiamento, come individui e gruppi con la passione di migliorare le vite della gente e delle comunità.

La presenza su un territorio di imprese sociali, di un’economia quindi di  matrice civica, dal basso, può fare da volano per attivare processi di sviluppo del territorio? Si, le imprese sociali possono svolgere un’azione di  community developer, stimolando processi di rigenerazione delle risorse territoriali e inducendo innovazioni nelle politiche.