
Oggi nel nostro Paese le donne possono votare (quest’anno ricorre il 70° anniversario del suffragio universale, introdotto nel 1946) , si vedono riconosciuti diritti umani al pari degli uomini e godono di maggiori libertà ma la strada da percorrere per una reale uguaglianza tra i sessi è ancora lunga e richiede grandi cambiamenti culturali, nella mentalità e nei comportamenti.
La conferenza sulle donne delle Nazioni Unite svoltasi a Pechino nel 1995 ha posto l’accento sul tema del gender gap ed ha introdotto i principi di empowerment e mainstreaming (Integrazione sistematica delle situazioni, delle priorità e dei bisogni rispettivi delle donne e degli uomini in tutte le politiche, misure, interventi, allo scopo di mobilitare e sensibilizzare tutte le politiche di ordine generale affinché si raggiunga la parità tenendo conto degli effetti all’atto della loro pianificazione e attuazione) , affermando come valore universale il principio delle pari opportunità tra i generi e della non discriminazione delle donne in ogni settore della vita, pubblica e privata.
La piattaforma individua 12 aree che vengono viste come ostacoli al miglioramento della condizione delle donne: 1. donne e povertà; 2. istruzione e formazione delle donne, 3. donne e salute: 4. violenza contro le donne; 5. donne e conflitti armati; 6. donne ed economia; 7. donne, potere e processi decisionali; 8. meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne; 9. diritti fondamentali delle donne; 10 donne e media; 11. donne e ambiente; 12. bambine.
In questa sede mi focalizzerò in particolare sul concetto di empowerment e sulla presenza delle donne nei processi decisionali e in posizioni di potere, nelle aziende e in politica.
Cominciando dal mondo del lavoro è noto che la percentuale di donne lavoratrici è inferiore rispetto a quella degli uomini anche se l’occupazione femminile in Europa è aumentata, raggiungendo il 64,5% contro il 75,6% degli uomini. In Italia siamo solo al 47%, terzultimo Paese in Europa.
Si pensa spesso che la minore percentuale di donne lavoratrici sia in larga parte dovuta all’assenza di politiche aziendali di life-work balance: il report 2015 della Commissione Europea evidenzia curiosamente che tali misure invece di sfidare gli stereotipi tendono ad alimentarli; migliori risultati si sono invece ottenuti laddove è stato introdotto anche il congedo parentale paterno (l’unico Stato europeo dove ancora non è stato introdotto è l’Irlanda).
Quello che secondo me incide notevolmente è invece soprattutto il background sociale e culturale legato ad una definizione dei ruoli “tradizionale”. Non affatto da sottovalutare, ed una certa educazione tradizionale, specie di stampo cattolico, fa si che le bambine crescano con degli stereotipi e delle limitazioni rispetto alla considerazione del proprio ruolo e delle proprie potenzialità, che molto spesso le portano a non cercare volontariamente la propria piena espressione proprio per via della scarsa consapevolezza e di una bassa autostima che si viene a determinare fin dalla più giovane età.
Ricordate lo spot di Procter&Gamble “Like a girl”, volto proprio a sfidare gli stereotipi di genere e a stimolare una riflessione sull’empowerment femminile?
Un valido strumento di empowerment è sicuramente l’imprenditoria. In tal senso si è ravvisata la necessità di una formazione volta a creare una vera cultura imprenditoriale femminile volta a superare gli stereotipi. A titolo di esempio cito Woment (www.woment.org), un progetto Leonardo da Vinci – Trasferimento dell’innovazione (TOI) finanziato dalla Commissione Europea tramite il Programma LLP dell’EACEA. Si è trattato di un’iniziativa pilota, conclusasi nel 2015, promossa congiuntamente da Italia, Spagna, Polonia, Grecia e Bulgaria con lo scopo d’incoraggiare l’auto-impiego e stimolare lo spirito imprenditoriale nelle donne, attraverso l’identificazione delle competenze necessarie, la creazione di buone prassi e la promozione della cultura dell’imprenditoria. La ricerca ha evidenziato che le donne disoccupate sono il 13,2% e il 6,4% di queste sono disoccupate da più di un anno.
Non posso poi non ricordare tra le iniziative di empowerment, a livello imprenditoriale e non, i circoli LeanIn, creati dal Sheryl Sandberg. Io stessa faccio parte di LeanIn Rome. Si tratta di gruppi di donne che hanno l’obiettivo di creare la consapevolezza dei comportamenti discriminanti basati sulla differenza di genere e sugli stereotipi, attraverso incontri, seminari, anche in collaborazione con istituzioni o associazioni attive sul territorio; fornire gli strumenti critici e di autoanalisi per eliminare dai comportamenti quotidiani il peso dei condizionamenti culturali basati sull’identità di genere ed essere così “agenti” del cambiamento; mettere in atto iniziative specifiche per modificare gli equilibri di genere partendo dal contesto di riferimento per poi allargare la sfera di azione.
Ho poi avuto modo di essere coinvolta in altre iniziative di donne per le donne, l’ultima in ordine di tempo nata proprio qui nel territorio padovano, Sophia, con lo scopo di creare networking e fornire supporto reciproco nello sviluppo e promozione delle proprie attività imprenditoriali.
A tal proposito penso che fare rete sia fondamentale per scambiare informazioni, condividere sfide professionali e creare contaminazione positiva. Per farlo è importante riuscire a fidarsi le une delle altre, avere voglia di fare, avere la consapevolezza di potercela fare e avviare un confronto costruttivo. Penso che la collaborazione al femminile sia utile soprattutto a tutte quelle donne che vogliono fare il salto di qualità ma magari non se la sentono di osare subito e attraverso esempi di cui fidarsi e modelli a cui ispirarsi possono riuscire ad emergere professionalmente e a farsi avanti nel mondo. I circoli per sole donne insomma, li vedo come step intermedio, come percorso di facilitazione, ma non come un mondo parallelo nel quale chiudersi.
Passando al tema della rappresentanza femminile, secondo gli ultimi dati pubblicati dalla Commissione Europea, la presenza delle donne nei consigli di amministrazione delle maggiori imprese quotate è in media circa il 21,2%, in netta crescita rispetto all’11,9% del 2010. Questo incremento è dovuto a progressi concentrati in alcuni Paesi, in particolare in quelli in cui sono state introdotte misure legislative, come l’Italia (+21,2 punti percentuali) e la Francia (+20,5 punti percentuali).
In Itali la legge 120/2011, detta legge Golfo-Mosca dai nomi delle prime firmatarie, impone, a partire da agosto 2012, il rispetto di una quota di genere nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società italiane quotate in Borsa. L’obbligo si è poi esteso anche alle società a controllo pubblico. Si tratta di una misura temporanea: le quote sono obbligatorie solo per tre mandati, con una quota fissata al 20% per il primo rinnovo e al 33% per i successivi due. Grazie alla legge Golfo-Mosca, l’Italia è passata dal 6% di presenza femminile nei Cda delle società quotate a circa l’attuale 27% (superiore ai limiti minimi imposti dalla legge), arrivando ad essere al quinto posto in Europa.
Le uniche evidenze sull’impatto delle quote gli effetti dell’introduzione delle quote nei Cda riguardano la Norvegia ed evidenziano che gli impatti sulla performance aziendale e sul mercato possono essere addirittura negativi.
Per quanto riguarda invece la rappresentanza politica non sono molti i paesi che hanno introdotto le quote di genere nella legislazione nazionale, sono numerosi invece i paesi europei in cui i partiti hanno adottato un regolamento interno sulla parità di genere. Le quote sono fissate per legge in Francia, Portogallo, Belgio, Spagna, Polonia, Lussemburgo, Grecia, Irlanda e Slovenia. La percentuale delle quote varia da Paese e Paese e dipende dalla legge elettorale. In Svezia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Germania le quote di genere sono adottate dai partiti, e non sono stabilite per legge. In Danimarca, Finlandia, Lituania, Bulgaria, Estonia e Liechtenstein non esiste nessuna forma di regolamento per favorire la presenza femminile nelle liste elettorali e in parlamento. In Italia l’Italicum prevede che ciascuna lista non possa essere composta da più del 60% di uomini o di donne.
Ma, venendo alla questione che è al centro di questo intervento, le quote rosa sono davvero uno strumento per il superamento del gender gap?
Presenza e rappresentanza “obbligatorie per legge” sono un riconoscimento delle capacità e del valore di una donna?
Io penso che a monte si debbano rimuovere le cause, prevalentemente culturali, della minore partecipazione alla vita politica attiva.
Chi di voi sarebbe contenta di essere eletta solo perché bisogna riempire un posto riservato ad una persona di sesso femminile? Io sinceramente no. Lo trovo alquanto umiliante.
Il processo culturale di empowerment riguarda in primis la consapevolezza e l’autostima. Una donna consapevole delle sue potenzialità e delle sue capacità aspira, legittimamente, al riconoscimento delle stesse e vuole dare un proprio contributo nella gestione della cosa pubblica. Ed è per questo che decide di fasi avanti e di partecipare attivamente alla vita politica. Pari opportunità significa potersi trovare nelle condizioni di farlo. E di essere eletta per ciò che vale non per il fatto di essere donna.
Le quote rosa a loro modo sono una forma di discriminazione, uno strumento per sottolineare una diversità in termini di debolezza, che necessità di un ambiente protetto. Io sinceramente non ci sto.
Il fatto che in prima battuta, nel breve periodo, aumenti la rappresentanza delle donne non significa necessariamente che aumenti la qualità.
Forzare il sistema non rimuovendo le barriere in ingresso ma scavalcandole non rappresenta secondo me una conquista per le donne. Non è questione di numeri ma di merito. E può valere anche al contrario secondo me.
Così come non si può discriminare solo sulla base del genere allo stesso modo non si può premiare solo sulla base del genere.